Foto di Andrea Macchia
Diario drammaturgico di Francesca Rosso
Foto di Andrea Macchia
Primo weekend Tiny
Cosa è successo prima
La prima volta che Viola mi ha parlato di questo progetto ho sentito un brivido nella parte alta della schiena. Tecnologia e danza? Mmmm come non mi risuona. Poi ho lasciato che la fiducia in Viola, nel processo, nelle cose come sono prendesse il posto della diffidenza. Forse poteva essere una sfida e in ogni caso un’ottima occasione di coltivare il non sapere, la mente del principiante. Primi pilastri di consapevolezza.
L’idea, visto che la mia presenza è uno stage nell’ambito del master in drammaturgia dell’accademia Silvio D’Amico, era di testimoniare il lavoro, di mettermi al suo servizio, a disposizione. L’abbiamo chiamato “diario drammaturgico”. Uno sguardo che oscilla fra dentro e fuori. Quello che ci piacerebbe è non la “ricerca” che deriva dal latino ri-, rafforzativo, e circare, andare intorno all’oggetto che si cerca. Quando si fa ricerca, in qualche modo, si sa cosa si desidera trovare. Questo percorso fra scrittura e movimento, invece, assomiglia di più alla passeggiata di Florenskij, un andare insieme senza sapere cosa offrirà il percorso ma lasciandosi stupire da cosa si troverà. Un modo per coltivare il non-sapere e aprirsi al dispiegarsi della realtà istante per istante.
Venerdì 10 marzo, primo giorno
Non so cosa aspettarmi, non ho mai conosciuto Carlo. Conosco Viola, Lisa, Flavio, Nadja perché abbiamo fatto insieme un percorso di pratiche di mindfulness proprio qui al BTT, dove mi sento super a casa. Conosco poco Luca che è arrivato dopo.
Per me sarebbe facile fare un diario, un reportage di quello che succede, ma credo che non aggiungerebbe nulla al registrare tutto, audio, video. Allora proverò a portare qui il mio sguardo.
La domanda è: quel è la giusta distanza? Quanto vicino posso andare senza che gli altri mi vivano come un’intrusione nel loro spazio, nella loro intimità? Quanto posso essere risorsa per il mio semplice esserCi?
Non lo so, non ho risposta. L’unica cosa che posso fare è attivare una connessione profonda con quello che avviene, respirare insieme, lasciare crescere piccole antenne di attenzione sulle pelle, nei sensi e stare. Il resto verrà.
Siamo in cerchio, Carlo racconta la sua idea di partire da cosa di più lontano c’è dalla tecnologia, la memoria, il ricordo, andare indietro invece di avanti, nelle radici. Il presente non è niente altro che il passato e il futuro insieme, un ponte fra ciò che eravamo e cosa saremo, un eterno divenire. Questo è il “qui e ora”, non una fotografia ma un film, movimento, fluire.
Verità è connessione, intimità, immersione. Rito, azione rituale, condivisione. Immersione.
Non “dietro le quinte”. Non devo scrivere questo. “Rito” mi si deposita da qualche parte. RT è qualcosa che conservo, come un appunto in pennarello, evidenziato.
I filmini di quando eravamo piccoli. Carlo vuole partire dalla cosa più lontana dalla tecnologia. Chi guarda metterà un visore e vedrà chi danza bambino alle prese con la sua infanzia.
Ai miei tempi c’era mio nonno che faceva i super8. Oggi vediamo Nadja suonare l’arpa, fare la lingua perché sbaglia, cantare, danzare, scartare regali, trainare una valigia, spostare una scarpa come fosse la cosa più importante del mondo con quella presenza che assorbe tutto. Il mondo è quella scarpa. Nonni e genitori intorno, il cavallo di legno, l’emozione negli occhi lucidi di Nadja oggi.
Lisa ha 8 anni ed è impegnata nel “Lago dei cigggnnnni”al Disney Club, è una sfida, vuole vincere. Roberta, ci spiace.
Comincia il lavoro.
10 minuti per scrivere di un tema e poi a pop corn, chi desidera legge rivolgendosi a una persona non al gruppo.
Non so se farlo anche io oppure no. Sì, mi sembra una buona idea.
Dall’1 al 5
Il primo è Mi racconto. Sono una creatura in movimento. Mi piace esplorare ed essere sempre un po’ a disagio. Mi piacciono gli inizi. Cominciare. Perdere l’equilibrio. Scrivo. È l’unica costante del mio vorticare. Da bambina scrivevo poesie di notte con una lucina sotto le coperte per non svegliare mia sorella. Ho sempre scritto: pubblicità, libri, articoli. Mi piace il viaggio dentro la scrittura. Sono in un modo quando comincio, alla fine in un altro. Così mi conosco. Mi piace fluire con il fiume, il mare, la vita. Mi piacciono i colori, le vibrazioni, le onde. Sono più a mio agio nello sconosciuto che nel conosciuto. La musica, classica soprattutto, mi tiene compagnia. Anche la danza, in varie forme. Medito, osservo il cambiamento. Sto. Non sempre riesco a lasciare andare.
Il secondo è Il primo ricordo. Sono all’asilo. La suora mi mostra i piccoli lavandini e i bagni. Ho chiesto io di andare all’asilo per non stare a casa a “grattarmi la pancia”, ma non so se questo è un ricordo mio o un racconto dei miei.
Il terzo è Il primo ricordo in relazione alla danza o al movimento. Qui mi fermo, penso alla lezione di danza alle elementari, alla parte bassa della schiena da far aderire al pavimento, ai saggi in tutù. Poi osservo gli altri scrivere. La concentrazione è altissima.
Il quarto è Un luogo di Torino a cui sono legata. Non ho dubbi, è il fiume. Perché sul Lungo Po abitavano i nonni e poi ho abitato coi miei. Perchè remo e osservo le stagioni dal punto più bello della città. Ora gli uccelli nidificano, prima c’era la neve, poca, rimasta aggrappata alle pareti a nord, prima ancora i colori cangianti dell’autunno. E poi folaghe, svassi, aironi, le 2 oche dell’isolotto, un germano che atterra, una papera che protesta perché le siamo troppo vicine. Punto specifico: fra Armida e Cerea, toccando l’acqua o sul terrazzo Armida.
Il quinto è Una persona a cui sono legata e perché. Mia sorella, perché ci sono tante sorelle che la vita ti mette sul cammino ma la sorella biologica è qualcuno con cui si può non assomigliare, con cui ci può essere estraneità ma è sempre casa, ritorno, ricordo.
Il sesto è Un segreto intimo. Ho avuto un periodo di depressione, brutto, passato grazie a psicofarmaci e un mese di mangiare-dormire e basta. Soprattutto dormire. Un giorno ho capito che la vita anaestetizzata, senza dolori sì ma anche senza sentire la differenza fra un vino e un altro non aveva senso. Sono arrivate altre risorse: yoga, arteterepia, poi qualche anno dopo psicotareapia, mindfulness e la depressione non è più tornata.
Ora, dopo questo blocco di 5, ci mettiamo in cerchio e ciascuno legge o racconta a una persona. Flavio è piccolo dentro, napoletano e ha una passione per gli occhiali; Nadja è limpida, introversa ma curiosa, empatica; Viola ha occhi come finestre e pelle che riflette le emozioni, ci ha messo tanto a scoprirsi, c’è malinconia e luce non diretta; Luca ama la pallavolo, voleva recitare ma non c’erano scuole nella sua città, è determinato e sensibile, testardo, si sente in colpa; Lisa ha avuto tante vite, un’infanzia felice ma con turbolenze, ama studiare e collezionare, ha una famiglia immensa e immensa è la sua borsa.
Luca si ricorda di Nina, la compagna di asilo con gli occhi verdi che si è trasferita e non sa più nulla di lei; mi ricorda Alberto che in prima elementare era andato via, ad Avigliana, a me piaceva lui ma a lui piaceva Cecilia; Lisa stava a casa da scuola quando era malata e sentiva la mamma tagliare tessuti e ognuno aveva una sua musica, faceva i trenini di sedie prendeva i soldi del monopoli, il cappello di cicciobello e andava; Viola aveva una casa con i ricci, le civette, le tortore, il cane Arcibaldo, occhi grandi e guance rosse che tutti toccavano; Flavio non voleva andare all’asilo, stava attaccato alla gamba di mamma e diceva “Pasciania” al posto di “Champagne”; chissà dove è finita quella cassetta in cui mia cugina Claudia mi fa scandire “Sa-la-mi-na” sillaba per sillaba, e quando la metto insieme dico “Samalina”; Nadja non riusciva a dire “Pinocchio” e una notte si è svegliata perché aveva sete e ha chiamato i suoi che non c’erano ed era tutto buio e l’angoscia saliva, finché non è arrivata la vicina e l’ha portata da lei a vedere a un documentario sui maiali, quando papà e mamma sono tornati si sono sentiti in colpa: era la loro prima uscita lasciando Nadja a casa.
Viola giocava all’elastico in cortile e ballava sui piedi di papà e piangeva quando la mamma danzava Giulietta e moriva; Luca è andato alla scuola di musical; Nadja voleva fare danza classica ma l’hanno portata a fare danza dei bimbi; Flavio ha ballato con sua sorella in un villaggio turistico in Calabria fra luci colorate e da lì non ha più smesso; Lisa cantava Whitney Houston e seguiva le linee del tappeto giocando.
Nadja ama porta Susa perché quando è arrivata a Torino è arrivata lì, ma perché ci sono due fermate di metro? Ci si confonde; Flavio ama il cortile dell sua vecchia casa che vedeva dalle sbarre, una prigione che l’ha liberato; Viola ha un punto vicino alla Mole, luogo di felicità e confidenze dove il tempo si ferma; Lisa ama il bancone di un ristorante vicino a casa e cerca di non affezionarsi ai luoghi; Luca ama il Valentino e il bar qui vicino dove lo spritz costa 2.50 euro.
Le persone importanti a cui siamo legati fanno scorrere lacrime di gioia e gratitudine.
Nadja è legata a sua zia e alla sua voce calma e calda; Lisa lascia arrivare l’emozione e poi parla di Sergio, il compagno della mamma; anche Viola ha una zia nel cuore e un rifugio nel bosco e tanti oggetti inutili; e poi c’è la mamma per Flavio, sempre disponibile e tanta emozione e per Luca mamma e nonna.
Il segreto intimo per Viola è la discoteca in cui era proibito andare e quindi una specie di grotta di sedie nella casa al mare, ma poi arriva Sandrino che era innamorato di lei alle medie e un giorno l’ha buttata per terra e riempita di baci e da lì lei ha pensato che fosse meglio non piacere; Luca ha danneggiato il corpo col peso e con l’alcool, è stato bullizzato e maledetto quel compagno che si è messo la sua verifica nelle mutande e gli ha detto “ora puoi masturbarti”, rubava anche i kiwi; anche Flavio è stato bullizzato e ha imparato a cercare vie di fuga; Lisa faceva pozioni magiche con piante e animaletti che poi lasciava negli armadi; Nadja vive in Italia e si chiede se vuole vivere qui o tornare.
Dopo i primi 5 punti c’è chi danza con le parole, chi fra e chi attraverso.
Dal 6 al 10
Il sesto è un pensiero frequente/ossessione. Per me è la paura della mancanza di senso. Ma anche il cibo. Penso spesso a cosa mangiare, comprare, cucinare. Il settimo è una cosa che mi fa ridere e io scoppio ogni volta che vedo qualcuno inciamparsi e cadere, più è goffa la caduta, più rido, la classica buccia di banana. L’ottavo è cosa mi fa piangere. Per me alcune musiche sono automatiche, che sia la colonna sonora di Schindler’s List, il finale della Bohème o certe cose per pianoforte di Schumann o Schubert. Il nono è in cosa vorrei trasformarmi e mi appare un pavone che fa la ruota e si mostra senza paura anzi conspevole della sua bellezza, ma non c’è neanche spocchia, è proprio solo bellezza e perfezione. Il decimo è un piacere/segreto intimo: a me piace dopo la doccia, asciugarmi e mettermi nuda nel letto a sentire il contatto con le lenzuola e lasciar evaporare il calore.
Lisa è ossessionata da tutto ciò che comincia con “sarebbe bello fare”, cosa è meglio, l’efficienza e la paura del fraintendimento; Nadja da “cosa devo fare per”, essere pronta per quello che succede dopo per fare il suo meglio ed essere printa a tutto; Luca si chiede perché non sa piangere, perché non riesce?; Flavio dal cibo e dal vino da abbinare; Viola dal lavoro come sogno, ossessione, e se morisse all’improvviso?
Nadia ride per gli animali buffi e piange per le situazioni di povertà; Flavio ride per il solletico e piange per le disgrazie sui bambini; Lisa ride per la spensieratezza e piange per la violenza; Luca ride per “Mamma ho preso il morbillo” e piange per il dolore delle persone vicine; Viola ride sulle giostre e per il solletico e piange per le storie degli altri e per il lieto fine nelle commedie americane.
Oggi non c’è stato movimento. La danza era nelle parole: c’è chi le usa in modo poetico, chi le associa a una musica che è danza, chi le usa in modo semplice, chi le fa risuonare, chi fa fatica su alcuni temi a lasciarle affiorare.
Il pranzo è condiviso, tutti nella stessa stanza, qualcuno ha portato cose da casa: polpette vegetali, uova, verdura, monoporzioni di formaggio, cracker; qualcuno scende a comprare affettati e insalata in busta. I miei carciofi e quinoa stanno bene nell’insieme.
Ero curiosa di vedere cosa mangia chi lavora col corpo. Qualcuno è a dieta, qualcuno mangia poco. La pausa è breve, mezzora e poi si torna in sala.
Densità, intensità, gratitudine. Questo mi porto a casa stasera.
Sabato 11 marzo, secondo giorno
“Movimento più intenzione = azione” dice Carlo, spiega che sta cercando una metodologia. Il metodo c’è ma si costruisce man mano insieme, Nella parola “metodo” c’è “meta” che porta con se il peseguire e “odos” la via, è cercare una strada. Insieme, la relazione è fondamentale. Come nella passeggiata di Florenskij. Non sapere già prima quello che si cerca, abbandonarsi al flusso, avere fiducia nel processo. Altro pilastro di consapevolezza. Con i ragazzi abbiamo fatto mediazione formale ora la pratica diventa esperienza, stare.
Non rappresentazione, no pantomima, no didascalia.
Oggi le parole scritte ieri diventano espressione. 10 minuti per elaborare nello spazio, 2 minuti per scrivere e poi si mostra, c’è la telecamera. Ma la relazione è sempre 1 a 1.
Mi piace vedere i gesti che tornano nella sala. È casuale ma forse no, un tamburellare delle dita sulla pancia torna nella terra e poi altrove. Guardo, osservo, scrivo, vorrei fare anche io cose col corpo, muovermi ma non è il mio ruolo qui. Se lo facessi forse non sarebbe un problema, Viola pensa che la danza sia di tutti come io penso che le parole siano di tutti.
Luca canta a Nadja sussurrando “Ti voglio cullare cullare posandoti sull’onda del mare del mare legandoti a un granello di sabbia così tu nella nebbia fuggir non potrai e accanto a me tu resterai”.
Nadja vorrebbe trasformarsi in elefante; Luca in volpe bianca o acqua termale; Lisa in suono; Viola in camaleonte; Flavio in un trampoliere dalle gambe lunghe.
E Carlo vorrebbe essere un verme per sentire il contatto denso con la terra, ma potrebbe essere anche una radice o un tubero.
A Nadja piace leggere ad alta voce in italiano o inglese, il respiro di quando legge la tranquillizza; a Lisa fare il bagno in mare senza costume; a Viola addormentarsi mentre qualcuno le legge qualcosa; a Luca quel breve momento dopo un esame o uno spettacolo; a Flavio flirtare.
11 Un aspetto della mia intimità. Per molti questo compito è difficile.
Flavio ama essere lusingato; Nadja è sempre alla ricerca di senso; Lisa ha un lato spirituale-onirico; Luca parla di togliere strati di corpo, cappotti trasparenti; Viola di malinconia e di luce che entra da dentro e vibrazioni con le persone con cui sta.
Viola avrebbe voluto chiamarsi Cecilia perché quando era piccola Viola non era un nome comune. Cecilia era povera e voleva pattinare. I suoi genitori non potevano comprarle i pattini ma la maestra decise di darle lezioni gratis e Cecilia vinse una coppa più grande di lei.
12 Cosa non tollero.
Viola parla di cosa ama, va fuori tema in positivo e dice cosa ama: le persone coraggiose, che osano e scelgono e vedono il bello e non sono vittime ma si organizzano intorno alle cose che capitano; Lisa la disonestà; Luca il vittimismo, Flavio le bugie ed essere preso in giro; Nadja la non puntualità e il non ascolto.
13 Cosa vorrei rimanesse di me.
Flavio parla di luce e sorrisi; Viola di canzoni, fiori, una tavola apparecchiata al mare a fine settembre, le persone davanti al fuoco con la chitarra, il bagno di notte al buio col mistero di non vedere sotto; Nadja l’ascolto; Lisa non ci ha pensato ma la gratitudine e un modo di stare; Luca si chiede se verrà ricordato, ha paura di non lasciare traccia. La relazione resta?
Io vorrei restare come polvere luminosa sui libri belli, sulle parole di cura, sugli oggetti di uso comune; un cucchaino, una biro, una tazza di tè.
Domenica 12 marzo, terzo giorno
14 Ho voglia di dirti.
Luca: “manchi ma ce l’ho fatta”; Viola: “spesso non mi voglio bene ma tu mi fai sentire giusta e apprezzata”; Flavio: “non va tutto bene, c’è sempre qualcosa di sbagliato ma va bene così, dobbiamo accettare, accogliere il cambiamento; Lisa: “grazie ma anche scusa”; Nadja: “dobbiamo fidarci, non perderci nella preoccupazione, non fare tutto da soli, non essere sempre capaci e forti ma mostrare fragilità; Carlo: “a volte l’evoluzione, il cambiamento vanno accettati per come sono e se non si è capaci bisogna trovare le condizioni per accettare e accettarsi”.
Cosa è la danza per te Carlo?
“Per me danzare è uno strumento di comunicazione. Lavoro su cicli lunghi, di 3 anni. Ho lavorato sulla bestialità umana, prima ancora sul dolore, ora sulla metamorfosi, il cambiamento la trasformazione. Questo lavoro rientra in pieno. Il processo è catartico, questo è il rituale del teatro.
Ogni creazione non è a sé, è un anellino in cui passa un filo. Sono i puntini da unire della settimana enigmistica, poi man mano la figura si definisce.
Arte Rito Teatro parole che sono legate a ṚtaṚta (ऋत), anche reso Rita, è un termine maschile sanscrito che compare nei più antichi Veda. Con Ṛta si intende l'”ordine cosmico” a cui soggiace l’intera realtà, ma anche una consuetudine sacra ovvero l’associazione tra il rito sacrificale e l’universo a cui esso è strettamente associato. Esso prelude, quindi, al termine più diffuso, e successivo, di Dharma.
Il termine Ṛta deriva da Ṛ (radice sanscrita di “muoversi”) e *ar (radice indoeuropea di “modo appropriato”), quindi “muoversi, comportarsi, in modo corretto”. Così Ṛta acquisisce il pieno significato di “ordine cosmico” ovvero della Realtà che procede priva di contrapposizioni od ostacoli. Questo termine è legato, sempre per mezzo della radice indoeuropea di *ar, al termine greco harmos, da cui l’italiano “armonia”, e al latino ars da cui “arte”.
Ṛta è un termine assegnato ai deva che operano coerentemente con l’ordine cosmico, il quale va difeso e mantenuto. Coloro che non perseguono questo “ordine” sono anṛta (non ṛta) o anche asatya (non veri).
Nel vedismo Ṛta è sempre stato considerato un principio impersonale e mai fu reso come una divinità “personale”. La divinità vedica che incarna il principio dello Ṛta è Asura Varuna (वरुण sanscrito, avestico Ahura Mazdā), suo tutore e vincitore del Caos, nonché protettore, severo e temuto, della “giustizia” e della “verità”.
Ṛta è particolarmente considerato nella pratica cultuale, ovvero nella corretta esecuzione di detta pratica che permette la permanenza stessa dell’ordine cosmico.
(fonte wikipedia)
tema da approfondire con Alessandra Consolaro, mia relatrice di tesi di dottorato, esperta di sanscrito
Continuando con questa riflessione “artrosi” sarebbe a, alfa privativo e rt, ciò che non scorre bene.
Articolazione è quindi cosa scorre. Ma anche Catartico. RT è l’opposto di TR? Trattato trans, trasformare, tra.
Carlo ha due quaderni: uno in cui scrive le cose che avvengono, a sua volta diviso in 2: cose da fare e fatte; e uno con le cose processate.
Il compito di oggi è la rielaborazione dei task in una composizione libera di 5-7 minuti in cui mescolare parola e danza, volendo anche una canzone da far ascoltare, da presentare alla camera.
Punti fermi: il primo è mi racconto e l’ultimo cosa vorrei restasse di me; cercare di toccarli tutti. Essere concreti in una narrazione orizzontale, un viaggio, una carrellata sulla propria vita senza remore nel dire o fare da adattare ai luoghi del cuore di ognuno.
Un viaggio che parte dalla Mole dove c’è Viola e va da Flavio a San Salvario, da lì al Valentino per Luca e poi a casa di Lisa e infine a Porta Susa.
Un po’ “sardina”, nascondino dove quando trovavi la persona ti nascondevi con lei, chi ha fatto segue me e Carlo nella tappa successiva.
In metro verso l’ultima tappa sale un barbone con una scarpa e una calza, il piumino con le maniche bianche sporchissime, una postura e una voce dignitose. Chiede dei soldi per mangiare e per lavarsi. Intorno indifferenza. Io ho subito una fitta alla base della schiena che mi inchioda, penso a chi ha parlato di povertà, annaspo nei pensieri: ho 30 centesimi perché non funzionava il bip della carta della GTT quindi ho usato il denaro, che tra l’altro era stropicciato e non veniva accettato, quindi ho anche fatto un cambio con dei ragazzi gentilissimi. Il clochard arriva alla porta e prima di uscire con un tempismo performativo perfetto dice “meglio morire”. Carlo ed io ci guardiamo pietrificati.
Intanto eccoci a Porta Susa: io al tel con Viola per recuperare lo zaino di Carlo in partenza tra poco. Ecco Flavio con la bici e lo zaino.
Io torno a casa. Oggi ho fatto 19.187 passi e 10 piani, 12,7 chilometri. Sono entrata nelle case e nei cortili e negli spazi scelti dalle persone. Tutti sono stati molto più intensi nel luogo, sarà perché avevano provato e il corpo era più dentro, sarà perché i posti che ami, come le persone guidano e vibrano e risuonano.
Quanta generosità nel loro mostrarsi ed esserci. Sento di aver ricevuto tanto e dato poco, solo presenza. Molti gesti e parole e movimenti sono entrati nel cuore.
Il cuore è un organo cavo, ha “una parete che racchiude un lume idoneo ad accogliere un contenuto”. Il mio ora è pieno di pezzi di memoria, intimità, doni ricevuti.
Viola ha spesso parlato di pelle, Nadja di ascolto, Luca ha cantato, a Flavio piacciono gli occhiali, Lisa faceva pozioni magiche. Per questo mi viene da assegnare a ciascuno un senso, Viola-tatto, Nadja-ascolto, Luca-gusto, Flavio-vista e Lisa-olfatto. Ma forse è tutto mescolabile. Lisa voleva essere suono e ascoltava la musica dei tessuti tagliati dalla mamma, Flavio pensa spesso al cibo, Viola aveva gli occhi come finestre, Luca ha cercato il con-tatto, Nadja virrebbe essere elefante con il suo naso-proboscide.
Seconda tranche di lavoro Tiny
In between
Nei giorni dopo il primo weekend ho sentito gratitudine, una specie di espansione allegra del petto e un assottigliamento delle antenne, come se dai pori della pelle partissero microsensori in grado di connettermi al sentire degli altri, una forma di compassione, nel senso di patire con, sentire insieme.
La ricerca sull’etimologia delle parole Arte Rito Teatro che sono legate a Ṛta è andata avanti. Ho chiesto a Alessandra Consolaro, docente di hindi e letteratura indiana all’Università di Torino e mia relatrice di tesi di dottorato una consulenza.
Dice di stare molto attenti con le etimologie che non sono scienze esatte (esistono?) ma interpretive in cui ognuno trova un po’ quello che cerca.
Forse è questo che mi piace, non la conferma di bias ma la parte ermeneutica, di ricerca filosofica.
Alessandra conferma quanto trovato su wikipedia
(riporto qui per comodità)
Ṛta (ऋत), anche reso Rita, è un termine maschile sanscrito che compare nei più antichi Veda. Con Ṛta si intende l'”ordine cosmico” a cui soggiace l’intera realtà, ma anche una consuetudine sacra ovvero l’associazione tra il rito sacrificale e l’universo a cui esso è strettamente associato. Esso prelude, quindi, al termine più diffuso, e successivo, di Dharma.
Il termine Ṛta deriva da Ṛ (radice sanscrita di “muoversi”) e *ar (radice indoeuropea di “modo appropriato”), quindi “muoversi, comportarsi, in modo corretto”. Così Ṛta acquisisce il pieno significato di “ordine cosmico” ovvero della Realtà che procede priva di contrapposizioni od ostacoli. Questo termine è legato, sempre per mezzo della radice indoeuropea di *ar, al termine greco harmos, da cui l’italiano “armonia”, e al latino ars da cui “arte”.
Le chiedo anche di altre parole o radici con “Rt”. Mi parla di “ṛtu” che si legge “riti” che significa “stagione”, “periodo di tempo che ritorna”. Associo rito a qualcosa che si ripete. Forse è proprio -ri, che viene da qui. Parole e pensieri corrono, i secondi sempre più veloci delle prime.
Qualche giorno dopo mi manda la definizione definizione del dizionario sanscrito Monier Williams. Eccola.
ṛtu (us), m. (Uṇ. i, 72 ) any settled point of time, fixed time, time appointed for any action (esp. for sacrifices and other regular worship), right or fit time, RV. ; AV. ; VS. [ID=38547]
an epoch, period (esp. a division or part of the year), season (the number of the divisions of the year is in ancient times, three, five, six, seven, twelve, thirteen, and twenty-four; in later time six seasons are enumerated, viz. Vasanta, ‘spring’; Grīṣma, ‘the hot season’; Varṣās (f. pl. nom.), ‘the rainy season’ Śarad, ‘autumn’; Hemanta, ‘winter’; and Śiśira, ‘the cool season’; the seasons are not unfrequently personified, addressed in Mantras, and worshipped by libations), RV. ; AV. ; VS. &c., MBh. ; Mn. &c. [ID=38548]
Alessandra mi manda anche la radice verbale ṛ
ṛ cl. 1. 3. 5.P. ṛcchati, iyarti, ṛṇoti, and ṛṇvati (only Ved.);
āra, ariṣyati, ārat, and ārṣīt, to go, move, rise, tend upwards, RV. ; Nir. &c.;
to go towards, meet with, fall upon or into, reach, obtain, RV. ; AV. ; ŚBr. ; ChUp. ; MBh. &c.;
to fall to one’s share, occur, befall (with acc.), RV. ; AitBr. ; ŚBr. ; Mn. &c.;
to advance towards a foe, attack, invade, ŚBr. ; MBh. ; Mn. ;
to hurt, offend, ŚBr. vii ;
to move, excite, erect, raise, (iyarti vācam, he raises his voice, RV. ii, 42, 2; stomān iyarmi, I sing hymns, RV. i, 116, 1), RV. ; AV. vi, 22, 3 :
Caus. arpayati, to cause to move, throw, cast, AV. x, 9, 1; Ragh. &c.;
to cast through, pierce, AV. ;
to put in or upon, place, insert, fix into or upon, fasten, RV. ; Śāk. ; Kum. ; Bhag. &c.;
to place on, apply, Kathās. ; Ratnāv. ; Ragh. &c.;
to direct or turn towards, R. ; Bhag. &c.;
to deliver up, surrender, offer, reach over, present, give, Yājñ. ; Pañcat. ; Vikr. &c.;
to give back, restore, Mn. viii, 191 ; Yājñ. ; Śak. &c.: Ved. Intens. alarti, RV. viii, 48, 8;
(2. sg. alarṣi, RV. viii, 1, 7; Pāṇ. vii, 4, 65);
to move or go towards with speed or zeal: Class. Intens. Ā. arāryate (Pāṇ. vii, 4, 30), to wander about, haste towards, Bhaṭṭ. ; Pat. , Kāś. ; [ID=38410]
ṛ [cf. Gk. ὄρ–νυ-μι, ἐρ–έ–της, ἀρό–ω, &c. : Zend √ir : Lat. or-ior, re-mus, aro : Goth. ar-gan : Angl.Sax. ār : Old High Germ. ruo-dar, ar-an : Lith. ir-ti, ‘to row’; ar-ti, ‘to plough’.] [ID=38410.1]
C’è il movimento nella r, andare, muovere, accadere.
E ancora su -AR mi smebra interessante cercare le radici di Armonia. Chiedo a Treccani. Mi regala un saggio bellissimo, che si trova qui
Ne riporto una parte
La radice *ar- risale al verbo greco ararískō, “connettere/accordare”. Presentano la medesima radice in greco il sostantivo hárma, “carro”, e in latino vocaboli come artus “arto”, ars “arte”, arma “armi” e persino armentum “bestiame”. Anche il termine inglese moderno arm (Arm in tedesco), “braccio”, ha la stessa origine. Si tratta in tutti i casi di parole legate a oggetti materiali e concreti: il carro è composto da assi di legno “incastrate e connesse” insieme, l’arto è congiunto al corpo da “un’articolazione” etc. Infatti, anche il significato originario di harmonía resta vicino a quest’area semantica: è tramite chiodi e harmoníēsin, “giunture”, che Odisseo assembla la sua zattera per fuggire lontano da Ogigia e da Calipso. Dal lessico della carpenteria e della falegnameria si passa successivamente a quello della medicina, dove harmonía può significare “articolazione” o “sutura”.
Mi fermo. È un viaggio che può non finire mai.
Lunedì 27 marzo, primo giorno
Cominciamo in cerchio, felici di rivederci. Gli abbracci sono potenti, caldi, gli sguardi anche. Carlo chiede cosa ha risuonato nel corpo dopo i primi tre giorni di lavoro. Spiega il nome della sua compagnia C&C non ha nulla a che vedere con Carlo e Chiara, che l’hanno fondata ma le c sono per corpo e cultura.
Se l’altra volta non sapevo bene che ruolo avrei avuto, come stare dentro e fuori, oggi sono già dentro, testimone, presenza. Una bella sensazione di partecipazione, fusione, insieme.
Luca si è sentito mentalmente aperto, stanco fisicamente. Gli è parso che il lavoro fatto dopo entrasse velocemente. La prima parte di lavoro è servita per perdonarsi certi passaggi, ha sperimentato un distacco positivo.
Viola ha vissuto l’eco di una sensazione di sicurezza. Ha toccato una fragilità concreta, una parte di sé bambina che difficilmente prende per mano, come se la Viola grande avesse accarezzato quella piccola per perdonarsi le mancanze e accettarle.
Nadja ne aveva pensate 3 ma ascoltando gli altri ne dice 2: è cambiato il suo modo di guardare gli altri, sente quello che sta attraversando l’altro, anche quello che non si vede ma si percepisce e nota come sia personale e allo stesso tempo non personale l’esperienza della vita. Ad esempio la mancanza è qualcosa che sperimentiamo tutti.
Mi viene in mente il Non-Sé, An-Atman, non c’è un sé separato dagli elementi che lo compongono, come dice lo zen. Il sé è illusione, ego.
A Flavio è risuonato l’equilibrio, si sentiva in asse e si è accorto che gli sta cambiando la gamba stabile dopo tanti anni. Non se la sente di parlare di perdono perché è del cancro ma ha sentito un senso di flow.
Per Lisa è stato come fare un bagno in acqua fredda e pulita, aveva le sensazioni a 1000. Dice che raccontarsi è difficile e scappa sempre. Ci sono cassetti difficili da aprire. Tante cose hanno risuonato nella quotidianità e l’hanno fatta sentire vicina alle storie degli altri. Nel corpo ha sentito molto torace e piedi.
Carlo chiede a me. Ho sperimentanto una grande gratitudine e una nudità generosa degli altri mentre io ero protetta dal mio taccuino. Nei giorni dopo ho sentito tanta energia e le antenne che captano sensazioni ed emozioni degli altri molto più attive. Il lavoro sui 13 task mi ha fatto venire in mente le 36 domande in 45 minuti per innamorarsi che lo psicologo Arthur Aron ha selezionato come esperimento sociale. Eccole: https://www.agi.it/lifestyle/test_innamoramento_domande-2069937/news/2017-08-19/
Quando ci si apre, si rivela la propria intimità, si è vulnerabili, senza gusci, allora lì si sente che non siamo separati, siamo condizione umana condivisa, esseri che hanno qualcosa che non vogliono e non hanno qualcosa che invece desiderano.
Carlo dice che per lui è stato stranissimo ricevere tanto, avere tanta energia e non poterla esprimere. Come me, eravamo spettatori di un processo che avveniva fra corpi e risposte, domande e incroci, però mancava la parte di espressione.
Viola nota come sia stato strano il tempo nello scorso incontro, lento e accelerato con quella domenica pomeriggio di corse e fughe per arrivare in tempo in stazione per la partenza del treno con Flavio che porta lo zaino a Carlo, come in un videogioco.
È il momento di vedere Luca piccolo fare il leone timido nel Mago di Oz. Meraviglioso. E Lisa che fa Dorothy e Viola in tv che danza coi capelli lunghissimi ma è già troppo grande, meglio quella lezione di danza al mare a 16 anni con i costumini alla Jane Fonda: tutina nera e mutanda colorata sopra.
Ora bisogna riprendere i materiali fisici, “rimettere insieme i pezzi” spiega Carlo: processare il materiale che abbiamo raccolto, i task fisici per creare una sequenza e un’azione di gruppo.
Le storie di ciascuno devono diventare 5 minuti di movimento, bisogna “sfoltire e addensare” dice Carlo. In questa fase non ci sono le parti parlate, solo movimento.
Sfoltire è sottrarre presenza energetica, “non essere al rallentatore o rarefatti, ma sottrarre il qui e ora dell’azione, come un ologramma, svuotato”.
Poi si cercheranno le comunanze, intersecazioni, coincidenze e si aggiungeranno l’effetto glitch nel corpo, quel tremolio dei vecchi materiali video, quell’inciampo, imprecisione, sfasatura; e l’effetto rewind che non è semplicemente fare al contrario un’azione ma orientare il peso, proiettarlo verso il fronte.
Carlo prega di essere tecnici e non cadere nel patetismo.
A questo aggiunge degli sguardi che non sono uno stop ma una sospensione in cui fermare l’azione e guardare, senza ammiccare. Una sospensione che scivola in altro, senza spegnimento fisico, togliendo materiale ma non energia. Sottrazione e sospensione di sguardo.
Lo sguardo è come dire a chi guarda: “Mi stai seguendo? Hai capito? Posso andare avanti nel racconto?
A Carlo e a me colpisce come nelle immagini di loro piccoli, bambini e ragazzi, bambine e ragazze siano già loro di oggi, come se quel seme di danza fosse già intero e pronto a fiorire quando era solo seme e contenesse già tutto. Si vede il daimon come lo chiama Hillman nel “Codice dell’anima”, anzi lui parla di ghianda, il demone che ci guida e muove le nostre vocazioni e i nostri destini. Hillman dice proprio che ci arriva come un’epifania quando siamo bambini quando ci illuminiamo: “Ecco cosa voglio fare da grande”. Quella è la ghianda.
Martedì 28 marzo, secondo giorno
Ognuno ha i due video di ieri che lo ritraggono mentre esegue il suo pezzo e lavora di cronometro per ridurre a 5 minuti. Flavio mette il telefono a orologio enorme, Luca scrive, le tre ragazze provano ognuna nel suo angolo.
È incredibile come sia cambiato grazie alla tecnologia il rapporto con la danza. Come si faceva quando non c’erano video a rivedere sequenze per scegliere cosa funziona e cosa no? E come si costruiva una memoria, un repertorio dell’arte più effimera di tutte che esiste solo nel suo farsi e disfarsi, che si sviluppa nello spazio come l’architettura e nel tempo come la musica ma abita il divenire e non l’essere. La danza non esiste se non è incorporata, se non abita i corpi che la agiscono.
Quando 30 anni fa, era il 1993, feci la mia tesi di laurea su “Die Klage der Kaiserin” il film che Pina Bausch diresse nel 1989, nel mio Erasmus a Wuppertal (in realtà abitavo ad Essen) mi permise di vedere i video degli spettacoli registrati su VHS, ma disse che erano solo strumento di lavoro, non ne andava fiera. Io partivo da Essen, in treno arrivavo alla prima stazione di Wuppertal. Da lì prendevo la Schwebebahn, la tranvia sospesa sul fiume Wupper, anche se sarebbe stato più saggio scendere dopo. Percorrevo la città dall’alto, appesa, dondolante e arrivavo al Lichtburg dove si provava Blaubart e sove mi infilavo in una stanzetta a vedere video di vecchi spettacoli.
I 5 interpreti mettono insieme i loro 5 minuti. Ed è magia: Viola cade esattamente nell’istante in cui Flavio si alza, il braccio di Nadja passa sopra la testa di Luca, lo sfiora, Lisa e Flavio corrono e sembra che si rincorrano, Lisa batte con le mani sulle cosce e sembra che da lì si propaghi un’onda che va a terra e torna, gli sguardi si incrociano, Viola e Lisa hanno una un braccio in alto e uno dietro la schiena tipo ballerine di flamenco nello stesso istante, Luca schiocca la lingua e da lì Nadja cambia forma e si allunga verso il cielo.
Il nuovo compito è inserire il GLITCH, un piccolo brivido, un tremolio, uno sfasamento nel corpo che ricorda i difetti dei vecchi video.
E di nuovo vado sull’etimologia. Si pensa che la parola inglese glitch derivi dal termine tedesco glitschen (slittare) e dalla parola yiddish gletshn (scivolare, pattinare).
Spiega Carlo: “Uno smottamento che non diventa cedimento, è una semplice distorsione, leggero, non ferma l’azione, come una piccola scossetta elettrica che fa muovere anche la testa. Non è verso il basso (fa tremare la terra) e neanche verso l’alto ma è orizzontale”.
Proviamo in coppia, anche io perché sono 5. Devo toccare Luca mentre fa la sua sequenza e da lì partità la scossetta che non è onda. Cerco di toccare punti diversi: spalla, testa, ginocchio, piede, gomito per vedere cosa cambia nel corpo. È bellissimo fare oltre a guardare. Per scrivere c’è tempo.
“Vogliamo contagiarci in cerchio?” Carlo invita tutti a mettersi in cerchio in modo da lasciar fluire le scosse.
Poi tutti ripartono con la loro sequenza, quando Carlo batte le mani parte il glitch.
Come ci sono stati i 5 minuti di racconto col corpo ci saranno i 5 minuti di racconto a parole. Sempre partendo dai 13 task ognuno costruisce un suo pezzo, in cui ci sono anche pause, magari cambi di posizione, interazione con lo spettatore. Saranno registrati. “evono contenere colloquialità e naturalezza – spiega Carlo -. Non è il racconto dei fatti propri ma la creazione di un’intimità come modalità, che crea uno scollamento fra la situazione ipertecnologica e la presenza”.
Funziona così: gli spettatori sono di schiena, i danzatori di fronte. Indossano i visori in cui vedono i danzatori bambini poi entrano nello spazio bianco dove si saranno oggetti come il cavalluccio o l’elefante. Alla fine chi danza prende chi guarda per mano. È una situazione di umanità ma estraniante. Si tolgono i visori e c’è la creazione simultanea per 5 partiture.
Mercoledì 29 marzo, terzo giorno
Carlo lavora con ciascuno singolarmente. I pezzi non sono cambiati ma sono migliorati. È come se facesse un lavoro di editing: qui aggiunge una virgola, qui un cambio di tempo, qui una pausa, se i piedi si aprono tre volte con la stessa musica diventa poi u-no, due-tre, un gesto diventa più ampio, uno più veloce, un braccio si ammorbidisce, un giro arriva senza preparazione, e così la sequenza è sempre lei ma è come se avesse più vita, raccontasse una storia, come se ci avesse insufflato un respiro o un colore, una vita diversa. Ed è incredibile come le piccole modifiche entrino subito in circolo, nei corpi e nella memoria.
Nella mattinata, mentre non c’ero, si è lavorato sul REWIND che non è banalmente riavvolgere ma spostare il peso in funzione della direzione, proiettarlo. Carlo ha provato a spiegarmelo camminando e spostando una bottiglia. Non so se ho capito.
Mentre Carlo lavora con i corpi mi chiede di lavorare allo stesso modo con le parole. I danzatori mi leggono le loro storie e io faccio la stessa cosa. Cerco un flusso, un elemento comune, qualcosa da cui partire. È un lavoro delicato mettere mano ai racconti di qualcuno: c’è intimità, pezzi di cuore e di budella. Ogni spostamento può creare danni o essere doloroso e allora soprattutto ascolto. Mi metto a disposizione. Non voglio manipolare nulla, ma essere maieutica, aiutare far crescere un seme che già c’è. Si tratta solo di aiutarlo a splendere. Quando sento che qualcosa si può collegare a qualcos’altro suggerisco il link, quando una cosa può far sorridere o commuovere cerco di aiutare a trovare un piccolo accento, una sottolineatura, tutto questo sentendo la musica delle storie, il loro ritmo interno, la loro vita che pulsa.
In generale spingo (in modo gentile) tutti verso la concretezza, la sensorialità, le immagini, i profumi, le sensazioni, i suoni, i sapori, i piccoli episodi. Tutto ciò che può facilmente risuonare in chi ascolta.
A Luca, che ha scritto sul telefono, suggerisco più concretezza, più “show, don’t tell” perché le cose astratte fanno un po’ “vorrei la pace nel mondo” non dicono nulla, ma se al posto della parola “bullismo” c’è un’immagine, un’azione, una spinta a terra ad esempio, allora tutto cambia e prende luce e si colora.
Luca scherza, mi chiama “prof”. Io ringrazio di non aver fatto l’insegnante.
A Nadja, che ha scritto sul quaderno, tanti racconti di animali suggerisco di partire da lì per rendere tutto più collegato e fluido. Ci sono elefanti, lumache, gatti e quei maiali in tv di quando di è spaventata tanto di notte da piccola. E poi la danza, la zia, tanto altro.
A Lisa, anche lei su carta, propongop di inserire qualche immagine bellissima che ricordo dal suo racconto: lei bimba che gioca sul tappeto e segue le linee o che si mette il cappello di Cicciobello, prende i soldi del monopoli, sistema le sedie a trenino e parte.
Viola ne ha scritti 2 sul suo taccuino glitterato: il primo è un racconto, lei dice che è fuori tema, il secondo è più nel compito ed entrambi funzionano, forse il secondo di più, ma certe immagini del primo, lei che guarda la luna e il riflesso argentato sull’acqua che chiama “Luni” e che vorrebbe mangiare nella casa al mare coi piedi su quelli di papà deve esserci assolutamente.
Flavio si presenta con l’ipad con tastiera, anche qui sistemiamo parti in base ai suoni e creiamo collegamenti: ci sono il riso e il pianto, la napoletanità, lui che balla da bambino in discoteca al mare con la sorella più grande. Lì c’è il daimon.
Ha paura che ci sia troppo io-mio-me. Ma sono racconti personali. Ci sta tutto.
Il supporto su cui si scrive dice qualcosa della persona o del modo di lavorare, buttare giù, rifare, cancellare, modificare. Io sono qui con un quaderno arancio con la spiralina metallica. Il computer servirà dopo, a casa.
Racconti personali, emozioni universali. Tutti abbiamo sentito quella mancanza, quella gioia, quella rabbia, quella magia, quella nostalgia, quella perdita, quel rimpianto. È la condizione umana condivisa. Siamo tutti uno. Io sono te e tu sei me e nel tuo racconto io mi rivivo.
Giovedì 30 marzo, quarto giorno
Ciascuno sceglie un partner a cui leggere il racconto in 5 minuti. Per me è emozionantissimo risentirli. Le cose che ho ascoltato in anteprima, su cui abbiamo lavorato insieme sono entrate e hanno provocato piccole trasformazioni, come pennellate di colore o di suoni e ritmi. Le ritrovo ma modificate. Le parole sono quelle, i racconti sono quelli ma c’è una musica, un flusso, una pulsazione diversa.
Mi sento inondata di calore e gratitudine, qualcosa di sottile ma potente.
Capisco cosa deve provare chi fa i mestieri di cura delle parole che io ho sempre rifiutato: uffici stampa, editor. Io ho sempre voluto stare dalla parte di chi è coccolata e non di chi coccola. Invece ha un suo bello anche questo sottrarsi ma aiutare a nascere.
È il momento di mettere insieme i 5 minuti di danza di ciascuno per lasciare aperte le possibilità di interazione. Carlo dispone le sedie: 5 spettatori in cerchio come punte di una stella. All’interno un rito collettivo con 5 storie, cambi di direzione, sguardi allo spettatore di ciascuno, stop. Lo spazio sarà circolare. Cambio posto e guardo da tutti e 5 i punti di vista. Ci sono magie e appuntamenti sonori o visivi: la caduta di Flavio dopo una capovolta innesca una reazione, Luca si butta in avanti sulle mani, Lisa in ginocchio solleva le mani. Nadja cammina abbassandosi e allargando progressivamente i piedi, la terra trema, c’è uno schiocco, Luca passa sotto. Viola passa fuori, Lisa dentro.
I nomi delle cose che capitano soni buffi: tanguero, terremoto, cane, caduta. Però tutti capiamo a cosa si riferiscono quando Carlo dice: “Riproviamo da cane”.
Da fuori sembra di guardare dei pesci dentro una boccia: sono strane creature capaci di guizzare, di posarsi sul fondo, di trasformarsi in altri animali e forse in piante o alghe e poi ci sono elefanti, uccelli dalle zampe altissime, trampolieri, una volpe, un cane, forse dei ricci, una lumaca. A volte vedo dei pezzetti di cartone animato. A volte ingranaggi, come un orologio burtonino. Ma vince una sensazione di organismo, composto da più parti. Un privilegio poter assistere a tutto questo, vederlo nascere, prendere forma. Esserci. Testimone, presenza.
Terza tranche di lavoro Tiny
1° giorno, 1° maggio
Piove, dopo tanto tempo. È una giornata speciale, è festa del lavoro, è lunedì, siamo contenti di trovarci, forse c’è un po’ di stanchezza da parte di tutti e tutte. Ma siamo qui. Maggio è da sempre un mese denso, pieno, le cose cominciano a chiudersi, si sente l’aria dell’estate, il suono delle prime rondini. È così dai tempi della scuola.
E poi la pioggia, una benedizione, un piacere, bella, potente, chi l’avrebbe mai detto?
Cominciamo in cerchio. Carlo spiega le tempistiche delle riprese a fine maggio, inizio giugno. I cinque luoghi scelti diventeranno uno solo, probabilmente un bosco, una foresta, un luogo nella natura.
Ors si tratta di aggiungere circolarità ai pezzi e sensorialità: si potranno toccare cose, sentire il loro profumo, visualizzare oggetti reali e immaginari (come l’elefante).
Il video partirà dall’occhio di chi danza.
Viene in mente “Un chien andalou” di Luis Buñuel del 1929, l’andare oltre la realtà con il surrealismo e con la violenza per scuotere gli animi borghesi assopiti.
Ma anche l’occhio che balza fuori dalla sposa come una molla ne “La sposa cadavere” di Tim Burton, film che amo molto.
“Deve essere piacevole stare con noi” dice a un certo punto Carlo. Per sottolineare che i testi e i movimenti devono creare dinamiche di coinvolgimento, essere personali e accattivanti.
Tutti e tutte scrivono sui loro quaderni, ci sono momenti densi in cui sembra di essere in un’aula studio prima di un esame.
Si creerà il virtuale senza il virtuale.
“Ho un ricordo, girati” per indurre chi guarda a fare cose. Nel video si potrà apparire, sparire, modificarsi.
Ricapitolando:
1) i video da bambini
2) il video parlato
3) il video danzato + i dettagli
4) si tolgono i visori e c’è la parte coreografica comune
Ci mettiamo tutti in centro, mentre fa Luca tutti seguiamo e Carlo riprende col telefono girando su se stesso, noi ci nascondiamo alla telecamera girando con lui, sembra un gioco, un po’ Nascondino, un po’ Sardine. Poi capiamo che possiamo stare tutti seduti con Carlo in piedi che gira. Funziona meglio. Lisa prende male le misure e girando intorno urta un piede di Flavio. Ridiamo.
Raccolgo un po’ di suggestioni dei vari racconti, diventano questo:
Stralunario versatile/Bestiario portatile
Vorreo mangiare la scia
della luna sull’acqua
buio, erba fresca,
maiali rosa sul divano
bambine alla sbarra:
scarpette, calze rosa e chignon ben tirati;
pantajazz e scaldamuscoli neri
acqua, vento, respiro,
piedi, mani, dettagli,
rimpicciolire e moltiplicare
ingrandire
per essere sempre piccoli,
l’odore del mare
l’aspirapolvere
il profumo della torta appena sfornata
marmellata di fragole
ti lascio un biglietto in una boccetta:
dentro c’è il mio desiderio,
le luci della discoteca
il trenino con le sedie
il cd di Whitney Huston
fare il bagno in mare nuda
un kiwi appena tagliato
ballare coi piedi su quelli di papà
il profumo del bucato steso al sole
la sedia Margherita
mamme e zie, papà
piuma sulla mano che fa solletico
frrr frrrr frrr frrrr
la forbice scorre e taglia il tessuto
ti sollevo un piede per farti sentire
non ti manca mai la terra da sotto?
Vorrei essere un elefante
anche se sembro una giraffa
cavalli, lumache, lucertole
conigli che fanno coniglietti
ricci e tante tortore
il gatto Chico e il cane Arcibaldo
una volpe di origami che forse è una nonna
Ognuno si occuperà ora del suo storyboard inserendo sullo script 4 immagini, 4 suoni, 2 odori, 2 momenti di contatto, ma poi magari tutto cambierà…
2° giorno, 2 maggio
Oggi si lavora con i solo orientati nello spazio. Il video danzato comincia e finisce dalla parte opposta, il parlato comincia dove finisce.
Il primo contatto con chi guarda deve essere delicato per non stordire.
Nel pomeriggio Carlo non c’è ma la compagnia ha un compito. Creare un file con due colonne, simile a uno script di una sceneggiatura: nella colonna a sinistra c’è il testo, quello che verrà imparato a memoria e recitato nel video, a destra ci sono gli effetti.
Stabiliamo i colori:
ROSSO per i visual con oggetto (tipo l’elefante, il tappeto, la casa)
ARANCIO per gli effetti visivi senza oggetto (buio, rimpicciolire, ingrandire, moltiplicare)
BLU per i suoni
VERDE per le cose tattili senza oggetto (toccare una gamba, accarezzare, picchiettare una spalla)
VIOLA per gli oggetti concreti (la foto sulla sedia Margherita da consegnare, un profumo da far annusare, le gocce d’acqua da far sentire su una mano).
Intanto si prova con la musica dello scorso anno, alcuni punti sono perfetti, acquosi, campanosi, giungleschi, altri industriali, metallici.
La pausa pranzo sul tavolone: Viola mangia carote dai pacchetti, Lisa ha 2 due uova sode, Nadja un contentitore di vetro con un contenuto misterioso, Flavio un riso con verdure, io quinoa e asparagina, Luca è altrove.
Nel pomeriggio il tavolo dove abbiamo mangiato si trasforma in un’aula studio. Si dibatte su come fare le colonne: c’è chi ha il computer, chi l’i-pad, chi l’i-phone, chi ha bisogno di aiuto e chi no.
Ci sono propensioni, ognuno di noi è più bravo/a a fare qualcosa, meno a fare altro.
Flavio e Luca sono molto dentro la realtà virtuale, sfruttano le possibilità, pensano in quel modo lì, creano in quel modo lì.
Io non ne capisco nulla e faccio fatica a immaginare. Negli Anni Novanta andavano di moda quei poster colorati con disegni ripetuti. Bisognava fissare un punto, sfocare lo sguardo e poi qualcosa avrebbe dovuto apparire: io non ho mai visto i dinosauri che tutti vedevano.
Luca dice che sono poetica. Io penso solo di non capire, di essere di un altra tribù. O di non avere quel linguaggio lì. Non so.
Anche Lisa è un po’ come me. Per noi quello che si può fare e quello che no resta un mistero. Saremo poetiche.
Dicevamo, in questa specie di aula studio, si colora, si discute, si fanno colonne, si danno colori, si ride e si cerca di stare. Proviamo le lunghezze del testo immaginando le azioni.
Nei testi ci sono ancora parti che non filano, scioglilingua, cose da tagliare. È un lavoro difficile, di lima, lungo, paziente. Molto diverso da scrivere per un quotidiano: lì cerchi subito il suono della parola, lo formi, lo adatti e lo lasci andare. Qui torni e ritorni.
Nel tesi di Viola c’è “la schiena del mondo” e un disegno stile Piccolo Principe con il mondo piccolo e il bambino grande.
Mi fa venire in mente la poesia di Alda Merini che leggo sempre dopo la meditazione sulle sensazioni.
Mi piace il verbo sentire
Mi piace il verbo sentire…
Sentire il rumore del mare,
sentirne l’odore.
Sentire il suono della pioggia
che ti bagna le labbra,
sentire una penna che traccia
sentimenti su un foglio bianco.
Sentire l’odore di chi ami,
sentirne la voce
e sentirlo col cuore.
Sentire è il verbo delle emozioni,
ci si sdraia sulla schiena del mondo
e si sente…
Alda Merini
3° giorno, 3 maggio
Oggi arrivo al pomeriggio mentre Carlo e Viola sono a fare il sopralluogo al Cafè Müller. Mi sento un po’ come la supplente in classe. Luca mi chiama “prof“.
Mi piace questo ruolo di ascolto.
I racconti per me hanno tutti un nome: sono quello delle persone o degli animali o delle cose personificate che appaiono nei racconti: ci sono “Sergio”, quello di Lisa; “Anna”, quello di Flavio; “Luni” di Viola; “Uta” di Nadja; “Nina” di Luca.
Immagino Uta prendere per mano Nina che vuole mangiare Luni mentre Anna e Sergio ballano abbracciati un valzer a piedi nudi in terrazza al mare.
In quasi tutti ci sono animali, tranne in quello di Flavio. In alcuni più d’uno, lucertola e cavalli anche se non li capisce per Lisa; elefante, giraffe, maiali rosa in tv, lumaca, conigli che fanno coniglietti, cane, gatto Chico per Nadja; cane Arcibaldo, ricci che scappano in giardino e tante tortore per Viola; una volpe di origami tatuata per Luca.
In tutti ci sono bambini che fanno cose straordinarie e tutti ma proprio tutti danzano: c’è chi prova le punte a casa e si fa sanguinare i piedi senza dolore (Viola), chi indossa i pantajazz e gli orrendi scaldamuscoli (Luca), chi vuole saltare la terribile propedeutica ma passare subito alla danza classica (Nadja), chi è indecisa fra cantare e ballare e cerca di imitare Witney Houston e poi opta per la danza (Lisa) ; chi si fa notare sulla pista da ballo di una discoteca di un villaggio estivo seguendo la sorella più grande (Flavio).
Genitori, maestri, maestre, insegnanti che avete cercato di scoraggiarli (e scoraggiarle) o minimizzare il loro talento quando erano piccoli, guardate cosa sono diventati: generosi, presenti, attenti, fantasiosi, collaborativi, preziosi, coraggiosi, autentici, aperti, perfetto miscuglio di forza e vulnerabilità, impasto di tecnica ed emozione, muscoli e cuore. Il BTT!
Genitori, maestri, maestre, insegnanti che avete cercato di scoraggiare chiunque danzi in salotto, dipinga sui muri, canti insieme alla tv, scriva poesie sul quaderno di matematica, cammini a testa in giù, suoni un pianoforte o un oboe o una cassetta della frutta, costruisca castelli di sabbia o sassi, cucini torte con sbuffi di farina tutt’intorno, tagli il bordo delle tende per fare abiti alle bambole, metta elastici fra le sedie per fare il salto in alto, lì c’è il daimon di cui parla Hillmann, lì c’è la ghianda, guardatela, riconoscetela, fatela crescere, lasciatela fiorire. Quella è la strada, aiutatela ad accadere.
A livello pratico stiamo tutti in centro e uno fa intorno, tutti suggeriamo azioni o momenti sensoriali. Sento che alcuni pezzi di storie mi stanno entrando dentro come piccoli spilli, altri invece si appiccicano sulla pelle come post-it, altri risuonano come piccole onde che accarezzano le antenne. Domani sarà tutto diverso.
Ricordati di esercitarti ad articolare bene le parole: metti una mattina in orizzontale fra i denti e mordila, poi articola e renditi comprensibile.
Impara uno scioglilingua, il più difficile per me è: “Ti ci stizzisci tu e stizziscitici pure”.
4° giorno, 4 maggio
Viola e Carlo comunicano i risultati del sopralluogo e della riunione con chi si occuperà della parte video.
Nello studio di posa lo spazio sarà di 4 metri, quindi i grandi spostamenti immaginati si dovranno ridurre e adattare.
Non si potrà stare davanti agli oggetti ma solo di fianco, quindi di lato all’elefante per capirci.
Non c’è nessuno problema a ridurre, ingrandire, apparire, scomparire, moltiplicare la persona, tutto fattibile.
Sono benvenuti gli oggetti reali.
Carlo decide di semplificare e ridurre a 5 gli accadimenti dei racconti: ci saranno 5 quadri. La parte raccontata con i 5 quadri deve stare in 3 minuti. Si potrà partire da altezze diversi, da seduti ad esempio.
Meglio il cavallo della lucertola per non perdere dettagli nei visori.
La danza in video.
Nel bianco ci saranno i dettagli come fosse una mostra fotografica dell’esibizione.
Incontriamo il musicista Max Viale che aveva composto le musiche lo scorso anno.
Segnala alcune criticità nel riutilizzare parte di una musica già composta. Dice che i concept sono diversi. L’audio deve essere spazializzato, il suono deve seguire il tracciamento della testa. Non è il cinema in cui si sta fermi.
Il fonico si occuperà del suono in presa diretta?
La sincronizzazione col team tecnico non si può fare a posteriori.
Gli speaker degli oculus, i visori per la realtà virtuale (hanno un nome bellissimo!!! il latino e il futuro, il latino è il futuro) sono pessimi.
Quattro spettatori nello spazio sentono in modo diverso, sono 4 angoli. 5 cambia tutte le prospettive. Storytelling ed equalizzazione dei suoni: parole e rumori che raccontano storie, come griot sotto all’albero di mango, favole nel bosco per allontanare la paura, cantastorie nella Matrix.
Lavoriamo ancora sulle storie e sul parlato, sul ridurre a 2 minuti e mezzo le parole. Ancora ci sono cose da aggiustare, pezzi difficili da dire “essere parte dell’essenza mi fa essere” o poco visive, sensoriali, tattiti “le persone che mi hanno aiutato sono la nonna e la mamma”, non è meglio “la mamma e la nonna mi hanno aiutato”? Eppure tutto scappa sempre, cacofonie, birignao, sillabe in lotta.
Ascolto, cronometriamo. Mi piace ascoltare, suggerire, lasciare emergere.
Vorrei un tutor-editor-punto di ascolto che facesse questa cosa con me, anche adesso. Sempre.
Mi chiedo se non sarebbe ora più semplice, invece di rimaneggiare i testi scritti tagliando, limando, correggendo, rifare tutto da capo. Prendere un foglio bianco, dimenticare le parole nero su bianco a cui è facile aggrapparsi e lasciare affiorare una a una le parole giuste, un po’ come uvette che salgono a galla nella ciotola del müsli.
Quarta tranche di lavoro Tiny
1° giorno, 29 maggio
Parco della Mandria. Riprese in natura. Oggi non ci posso essere ma guardo la pioggia e penso a quanto non controlliamo mai nulla noi umani che ci illudiamo sempre di controllare tutto.
La pioggia è democratica: cade su tutto e tutti. E non si occupa dei piani e dei progetti. Semplicemente cade. Tanta, poca, troppa, troppo poca, lei se ne frega e cade, fa la pioggia, vive la sua natura. Diluvia, piove come Dio la manda, a catinelle, grandina, tempesta, pioviggina, scroscia, piovischia, si ferma. Lei piove e tu non puoi fare altro che bagnarti o ripararti come puoi, tanto vince lei.
2° giorno, 30 maggio
L’appuntamento è sotto casa di Viola alle 8.10 per tornare alla Mandria. Ci sono Carlo e Viola, poi arriva Matteo Maffesanti con la sua attrezzatura e Lisa che cerca una farmacia: ha finito l’antistaminico e l’allergia in mezzo alle piante potrebbe essere problematica.
Viola presenta Matteo e me che non ci conosciamo. Fa presentazioni bellissime, piene di elogi incastrati con sapienza fra le informazioni. Scopro che Matteo si occupa, fra le altre mille cose, di progetti di teatro e disabilità intellettiva: Bunker Elevator. Tema molto interessante, come è interessante remare con i ragazzi del pararowing. Cercherò meglio cosa fanno.
Sul posto troviamo già la troupe Davide Borra con due operatori. E il fotografo Andrea Macchia. Scopriamo che ci conosciamo senza conoscerci: io vedo le sue foto, lui legge i miei pezzi, ma non avevamo ancora una faccia.
Fino a ieri è piovuto e qui, dove si girerà, fra le foglie secche che fanno tappeto c’è odore di funghi e muschio e terra bagnata. Si sistema la telecamera a 360°.
I danzatori e le danzatrici sono in costume: una finta pelle bordeaux con alcuni dettagli, un fiocco, una cravatta, un fazzoletto ma anche un top e un pantalone color bronzo. Stanno bene con il verde degli alberi e il color foglie secche. Sono tutti diversi ma hanno qualcosa di un elegante, soprattutto alcune giacche, quella di Luca che è in stoffa con un taglio alla coreana e quella corta di Lisa. Poi ci sono le scarpe, non da ginnastica: anfibi, mocassini, stivali.
Il terreno è accidentato e ci sono buche. Si cerca di mettere la camera in bolla. Intanto si ritoccano con ago e filo i costumi: stringere qui, fissare là, ago e filo in bocca.
Con Luca iniziamo un gioco, partiamo dalla parola Dis-livello e per tutto il giorno diremo parole con che cominciano con Dis. Così buttate come vengono: Disagio, discorso, disperazione, disciplina, discoteca, discussione… Vince chi lascia l’altro senza parole ma non vince nessuno.
Con il 360 bisogna togliersi di mezzo perché si riprende tutto e allora il mio compito sarà quello di fermare le persone che a piedi, in bici, in auto, di corsa o passeggiando transitano da qui. Dall’altra parte ci saranno Andrea e Matteo, dove abbiamo lasciato le auto. Io invece sono qui dove c’è una staccionata, terra bagnata e qualche cosa da osservare.
La prima cosa che osservo è l’irrequietezza della mia nente che è qui e non dove le cose succedono. Non so come vengono le riprese, se il terreno è scivoloso e si cade, se Carlo è soddisfatto o meno, se i ragazzi e le ragazze sono a loro agio in quello che fanno.
Carlo ci avvisa su una chat di whatsapp per l’occasione “Tiny blocchi” quando si gira e dobbiamo fermare. Un po’ lo capisco anche dal vociare o dal silenzio ma quando arriva “Bloccate” mi trovo a fermare persone, alcune sorridono e ringraziano e dicono “nessun problema, faccio il giro lungo”, passa un ciclista in velocità e mi butto a fermarlo, passano le auto bianche del parco e chiedo loro di fermarsi. Aspettano.
Arriva un ordine “Bloccate” ed è appena passata una coppia. Lui più lento, si ferma. Avviso Carlo di lasciarli passare prima di girare.
Fra un “Bloccate” e “Liberi” osservo le cose intorno a me. Sedersi a terra è scomodo perché la terra è ancora molto bagnata. Metto la felpa a terra. Ecco due farfalle bianche danzare, rincorrersi, posarsi. Due sono ferme con le ali piegate, così vicine che sembrano una. Ne arriva una terza.
Mi alzo a bloccare un trio con ragazza in costume ottocentesco con ombrellino, uomo vestito normale e operatore con telecamera. Dico “anche noi stiamo girando”. “Noi facciamo una soap opera” rispondono loro. “Noi riprese di danza in natura”.
Fra le foglie sento un rumore come di un animaletto che mastica. Topo? Scoiattolo? Poi ci sono lucertole immobili al sole ma non sono loro a masticare. Intanto osservo la terra asciugarsi. Respiro, la mente è quieta ora. Non ho più bisogno di sapere cosa succede là. Tutto è qui.
Ed è pausa.
Luca e Flavio pranzano lì dove abbiamo lasciato gli zaini, nascosti dietro un tronco, qualcuno ai tavoli del bar. Che belli gli spazi della Mandria. Non ricordavo così belle le scuderie.
Si chiacchiera fra sole e ombra.
Uomini da una parte, donne dall’altra. Ombra e sole.
Parlo di India, mi illumino, fra un mese tornerò in India dopo 8 anni. Solo lei mi fa quell’effetto di vita che straripa ed esonda e sconvolge e tutto si unisce e l’uno e i molti e tutto diventa piccolo, piccolissimo e flusso e particelle che danzano e caos e cazzotti e bellezza e sensi che si riempiono e cuore che si allarga e tutto che basta e avanza e tutto insieme.
Torno alla postazione. L’odore di terra e fango mi pare diverso. Un’ape danza con un fiore giallo, si posa, se ne va. Una foglia dall’altra parte della strada penzola e oscilla al vento, è quasi staccata ma non molla. A terra c’è una ghianda. Davvero sono così piccole?
Fermo altre persone. Non trovo più la foglia che oscillava. Eppure era lì fino a un attimo fa.
Lisa ha degli anfibi bordeaux come i costumi. Il cuoio che invecchia naturalmente e si consuma è di una bellezza unica, gli leggi addosso le storie proprio come in una faccia leggi le rughe. Il tempo rende la pelle delle scarpe piena di storia e di storie: l’uso, la pioggia e il sole, i passi, i baci, le corse per prendere un bus, i colori che sbiadiscono, gli inciampi, quella volta che le hai tolte di corsa perché era urgente svestirsi, quella volta che le hai buttate lontano con un gesto di rabbia e quando hai pestato l’erba e la neve e hai passeggiato per una città che non conosci ma che hai subito amato.
3° giorno, 31 maggio, Arca Studios, Docks Dora
Dal verde degli alberi pieno di sfumature e movimento al green screen, lo sfondo limbo compatto e uniforme che si usa per poter poi facilmente aggiungere sfondi, effetti, dettagli.
Difficilissmo recitare, usare la voce, per tutti ma certo per chi è abituato a esprimersi attraverso il corpo è una sfida immensa.
I testi pensati, scritti, accorciati, aggiustati, risentiti, tagliati, riformulati sembrano ora, imparati a memoria, un po’ finti.
Oggi oltre a Davide, c’è Enrico e poi ci sono Andrea e Matteo che fanno i loro dettagli.
Quando arrivo io ci sono, sotto lo studio, nei bellissimi portici dei Docks, Lisa, Nadja e Luca. Sembra il dopo o il prima di un esame universitario con chi ripassa, chi fuma, chi riposa. Solo Lisa deve ancora essere ripresa. Viola ha fatto in mattinata e ha detto che è stato difficilissimo e Flavio sta facendo ora.
Stamattina Viola mi ha chiesto se conosco una bambina bionda, per “Nina” di Luca e allora ho scatenato la chat di condominio, trovando una bimba non biondissima ma molto sveglia. Poi è arrivata Celeste, allieva di danza della scuola e di Lisa, che dopo scuola verrà accompagnata qui.
Carlo tortura Flavio che si mangia parole e va di fretta. “Sei napoletano, non una marionetta” gli dice. “Napoleatno intimista” commenta Davide. Non tutti i napoletani sono estroversi, si sa. Penso a Troisi, agli amici napoletani che ho.
Flavio parla della mamma e del salotto di casa. Carlo gli dice di non spegnersi, di accoglierci in casa sua. Ed ecco il salotto con lampada, tappeto e poltrona presi dallo studio.
“Non avere ansia, vai tranquillo. Vedrai che la vita ha un gusto diverso”.
L’ansia fa mangiare le parole e respirare male.
Ansia deriva da “Ango” costringere. L’ansia stringe, schiaccia la gola e non lascia uscire la voce e non lascia entrare e uscire bene l’aria. In tedesco “Angst” è paura. Anche lei costringe.
Intanto i toni vanno sullo scherzo. Carlo davanti alla telecamera simula delle pubblicità di medicinali lassativi, antidiarroici o antiemorroidi. Si stempera.
Flavio racconta di quando è andato a ballare con sua sorella in discoteca da bambino a 5 anni. “Forse meglio non leggere e raccontare – dice Davide – come se parlassi a me, non pensando a un testo scritto”.
Quando Flavio parla di piacere erotico, flirt, lo invita ad essere più credibile. “Non ci credi nemmeno tu”. Lo spintona, lo strattona, lo prende a calci simbolici nel sedere. Cade il microfono, Flavio non reagisce. Dopo è un po’ più convinto.
Nel frattempo devo scrivere 43 righe e poi 9 e altre 9 per La Stampa. Ho portato il computer. Sapevo di dover lavorare e di non poter dire anche oggi come ieri “Scusate non ci sono”. Così la mia danza sui tasti ubbidisce agli stop e quando sento “motore, azione!” mi fermo e un po’ rileggo, un po’ ascolto Flavio.
Intanto Davide segna cosa va e cosa no, “buona questa, ne facciamo una di riserva”.
Chissà cosa sto scrivendo in mezzo a tutto questo. Lo leggeremo domani.
Carlo è febbricitante da ieri ma invita Lisa a riprovare. Anche lei si mangia le parole, va velocissima. L’ansia fa velocizzare, come se finendo prima si fosse al sicuro. Forse. Inizia sdraiata a terra con i piedi accavallati. “Vorrei essere suono”. Si alza. Il microfono salta quando salta sul tappeto. Gioca con la stoffa. Fa un trenino di sedie. Guarda in su. Sono i grattacieli di New York, è lì che ha lasciato un pezzo di cuore.
È difficile tirare fuori voce ed entusiasmo. Credere in cosa si dice, davanti a telecamere e noi qui seduti. Nadja si mette sotto la telecamera. La sua presenza incoraggia. “Tutti dovremmo avere una Nadja che ci ascolta” dice Carlo. Sì. Tutti dovremmo avere una Nadja. Nella vita.
Viola annuncia che è arrivata Celeste. La bambina bionda che farà la Nina di Luca. Ma è alta quanto Lisa. Ha portato qualche vestito dato dalla mamma. Vince una tutina rosa di ciniglia maniche lunghe e pantaloni corti, scarpe da ginnastica. Il mio zainetto colorato con quaderno e astucci diventa parte della scena. Luca ripete la parte di Nina che “un giorno non venne più a scuola”. Carlo dice a Celeste cosa fare: “guarda il quaderno grande, mettilo dentro, apri quello piccolo, metti dentro, poi l’astuccio, chiudi, ti alzi, lo metti in spalla e te ne vai”. Si provano più sguardi: verso Nadja che aspetta da un lato, verso Lisa che è vicina alla telecamera. “Non per terra” dice Carlo. Celeste fa. Tutto finisce.
Smontiamo e andiamo via. Domani Carlo e Viola andranno in studio a vedere l’inizio del montaggio con Davide. L’appuntamento per tutti è alle 14.30 a meno di imprevisti.
Poi arriva sulla chat “Domani riposo”. Bene. Ne hanno tutti bisogno. Sono state tre giornate dense e impegnative.
E io posso scrivere queste righe senza correre e incastrare impegni. Accoglierle così come arrivano, lasciarle respirare, farle depositare sulla pagina. Come ha fatto il bosco accogliendo quella foglia che oscillava.
Ultima tranche di lavoro Tiny
1° giorno, giovedì 15 giugno
Mattinata al BTT. Non c’è Carlo ma Davide arriva con i visori. Sembrano un po’ delle maschere per fare snorkeling, un po’ delle piccole vasche da bagno e un po’ delle attrezzature da film di fantascienza del passato.
Sono belli, hanno una forma organica, un po’ animale, strana creatura fra il pesce e l’insetto.
Pesano e, indossati, schiacciano giù le guance anche se li stringi bene sopra la testa con una fascia col velcro e intorno alla testa, regolandoli per le tue dimensioni.
Proviamo l’esperienza ma bisogna andare nel corridoio per avere tutti la connessione.
Sono tutti in fila. Faccio delle buffe foto.
Provo io. Comincio con l’esperienza di Lisa che sento solo da sinistra e poi arriva quella di viola che sento solo da destra. Ci sono ancora aggiustamenti da fare, sincronizzazioni con l’audio, cose tecniche di cui non capisco nulla.
L’esperienza in natura è fortissima: la luce che filtra dagli alberi rende il verde brillante e le foglie a terra si armonizzano benissimo con i costumi bordeaux. I suoni avvolgono, uccellini, foglie stropicciate, movimento, respiri. Fino a questo momento non li capivo ma invece ora sono molto organici anche loro.
È bello seguire la voce della persona, cercarla nello spazio dei visori, girarsi, dà un leggero effetto vertigine. Per non perdere il contatto con la terra e le direzioni cerco con il piede il battiscopa. Diventerà la mia ancora a cui tornare quando muovendomi su me stessa e ruotando il tutte le direzioni mi sentirò persa.
I dettagli sono bellissimi e sono fluttuanti in uno spazio bianco che mi ricorda la stanza dell’inizio ma mi fa anche perdere un po’ i riferimenti perché il bianco crea un effetto vuoto, un’uscita dal conosciuto.
Nel frattempo il video di Matteo è molto intenso. Ha creato collegamenti fra i movimenti dei danzatori e delle danzatrici nella natura, una diversa visione, un punto di vista originale. C’è il momento del tremolio che mi emoziona molto, come una scossa che passa da uno all’altra e poi torna e va e contagia le foglie e l’aria e tutto vibra e pulsa e ha vita.
Ci spostiamo al Café Müller in via Sacchi. Per strada passeggio, telefono, gusto primo caffè shakerato dell’anno.
Per strada un elefantino abbandonato con le zampette coi colori arcobaleno. I peluches persi, i pianti di chi non li trova più. La vita che hanno gli oggetti che sono stati nelle mani e negli occhi di chi li ha accuditi.
Si scende sotto terra e l’ambiente è avvolgente e umido, sa di grotta e antro delle magie, perfetto perché tutto sia possibile.
Si provano le luci, i cinque punti illuminati a pioggia. Dove è il centro? Perché questi due sono più vicini? Misuriamo, ribaltiamo, chiamiamo Carlo, avviciniamo, allarghiamo, mettiamo segni per terra.
I balconcini morbidi sui 2 lati obbligano a un diverso incontro con lo spazio. Siamo sotto terra e l’umido si insinua sottile.
Il gruppo prova, il pavimento più più duro che in sala, suona in maniera sorda e dicono che le cadute sono più dolorose. La luce sul nero cambia tutto. Percezioni, emozioni, spazi.
Io starò nella stanza dei diari. Ci sarà il video di Matteo e sui gradoni della ex galleria del teatro ci saranno i diari di ciascuno con una postazione in cui sedersi e leggere, qualche oggetto, una lampada, un posto dove stare e continuare e vivere l’esperienza.
Arriverò dopo il saggio di tango. Ho fatto di tutto perché la nostra piccola performance di principianti avvenga prima di tutte le bimbe e le danze folk per scapare qui.
Tutto insieme. Nella vita le cose si addensano come ci fossero elastici che distendono gli eventi nel tempo e poi si molla da un lato e tutto si concentra e cambia le coordinate e i riferimenti. Mi piace quella sensazione, è piena di possibilità.
Starò qui trovando un equilibrio fra essere presenza discreta ma a disposizione, un po’ diario parlante su richiesta, un po’ ombra, un po’ guida, un po’ chissà.
2° giorno, venerdì 16 giugno
La tecnologia è bellissima ma delicatissima. Davide prova e riprova i visori che sono sensibili alla luce, all’illuminazione, all’ambiente.
Oggi c’è anche Luca Martone, il fonico, insieme a Ermanno Marini light designer.
Tutti si muovono a agitano nello spazio nero. Mi sembrano pesci operosi nella boccia.
Io mi fido più dei corpi fatti di ossa muscoli e pelle.
Provo l’esperienza di Nadja che è diventata bellissima: ci sono un paio di aggiunte che non avevo sperimentato e che sono intense e sorprendenti. Non dico nulla per non rovinare l’effetto.
Poi il visore che ha poca batteria e si spegne e mi perdo la transizione dal virtuale al reale.
Eccoli però nello spazio a danzare con la musica e sì ha ragione Carlo: “la musica si mangia i corpi” nel senso che è molto bella, intensa e piena ma copre le cadute sul cemento (che assorbe i suoni) e divora tutto e i performer sembrano diventare troppo piccoli.
Le percussioni sono troppo drammatiche per Carlo.
Io penso che la musica, in qualche modo, vinca sempre. Come quando cerchi di non camminare a tempo e invece lei ti richiama e vai con lei.
Viola e Flavio e Luca dicono che quando arrivano i dettagli è sorprendente e bella la musica la prima volta ma poi non dovrebbe essere uguale perché diventa prevedibile.
Concordo.
A me turba il parlottio, il vocio finale che cresce troppo e copre, non riuscivo a sentire la voce di Nadja live.
Luca lavorerà su questi aspetti.
Intanto sistemiamo le lampade e i diari e oggetti nella saletta dove sarà io, la ex platea. Uno spazio accogliente e dove sostare.
Sostare è una bella parola. La associo sempre a So Stare, nel senso che sono in grado di stare con quello che c’è, prendermi il tempo di incontrare le cose come sono. La sosta è saper stare, anche.
Chissà di che sosta saranno i partaker (così si possono chiamare gli spettatori) di domani e dopodomani?
Registriamo i suoni in modo da inserirli nella musica: la mano sull’avambraccio di Viola, la caduta di Flavio, lo schiocco di Luca, il battito di mani di Lisa, le mani che percuotono la pancia di Nadia.
E poi aria, fuori dall’antro umido, pancia della balena.
Fame di luce. E di aria.
Aria e caldo, sole.
Pizze e cibarie varie qui vicino.
Poi di nuovo dentro. Dove l’aria è acqua.
Davide è con 3 tecnici che indossano i visori e stanno cercando di sintonizzare tutto.
È buffo come si muovono gli esseri umani quando indossano un visore, sembrano bambini che imparano a camminare, che siano danzatori o tecnici: c’è chi vacilla, chi è cauto, chi sembra a suo agio, chi si muove al rallentatore come un astronauta nello spazio Senza gravità. Ma sembrano anche strani animali guardinghi e sbilanciati, un po’ talpe, un po’ insetti, un po’ scimmiette.
Mi chiedo come posso raccontare di Tiny domani sulla Stampa ma sono un po’ in un conflitto di interesse, fra dentro e fuori. A meno che io non racconti proprio le cose dal mio punto di vista privilegiato, come quando seguo i dietro le quinte di spettacoli o prove o altro. Ed è una delle cose che più mi piace fare al mondo.
Posso farlo.
Evviva.
Ma quanto è più difficile scrivere una cosa in cui sei coinvolta? Sarebbe più facile fare due domande a Carlo senza sapere nulla ma non sono in quella condizione.
E così scrivo dopo le prove.
Speriamo che nessuna notizia ci porti via lo spazio all’ultimo.
E poi il diario, queste parole. Saranno le ultime?
Anteprima Tiny, Café Müller
Il file dell’ultima tranche di lavoro si chiama “UltimatrancheTiny”. Ho smesso di dare titoli creativi ai file, da vecchia copy, perché non trovavo poi nulla, quando lo cercavo. E così i nomi sono didascalici. Pensavo fosse ultima tranche ma invece non lo sarà. Come quando metti Ok a un file e poi Ok2, Ok3, Okok, Okconladata.
Non sarà l’ultima perché siamo nella performance e anche il diario è esperienza performativa, oltre ai visori e all’esperienza live, c’è un altro livello: la stanza delle postazioni e dei diari di ciascuno, c’è il diario drammaturgico, ma ancora più performativa è la mia presenza di “diario vivo parlante” per chi lo desidera, un po’ come il progetto Human Library, le persone che raccontano dal vivo il vissuto, l’esperienza. Ma c’è ancora un altro livello: io sono anche lì a scrivere nei momenti in cui non c’è nessuno e non devo accogliere.
Una sorta di “mise en abyme”, messa in abisso, avete presente quando un’immagine contiene se stessa più piccola, o il sogno nel sogno al cinema.
Non sarà l’ultima perché penso di aver capito cosa voglio fare da grande, anche se già lo sapevo: vivere e raccontare cosa vivo, incontrare persone, connettermi con cio che di loro risuona in me, come faccio con i reportage, come ho fatto dall’India, in una posizione fra l’osservazione partecipata e il memoir, il diario che diventa punto di contatto fra quel che vedo e quel che vivo, affaccio sul panorama interiore, brulicante di emozioni, slancio verso un progetto futuro, seme di presenza che contiene la memoria di quel che è stato e quel che sarà che ancora non si vede ma già è qui.
Non sarà l’ultima perché questa cosa continua, sottopelle, nei sogni, nel sentire la connessione con tutte e tutti. Come potrò pensare di non andare più in via Cigna? Non è possibile. Sarà attaccamento o ci sarà una sana connessione difficile da lasciare andare a nuove forme?
1° giorno, sabato 17 giugno
La mattinata comincia remando sul fiume su un 8 in cui si deve andare tutti insieme se no la barca pende, e anche se potrebbe non sembrare importante per il diario, per me lo è perché è una danza e mi connette all’acqua, alla natura, alle presenze animali che popolano il Po: nell’hangar una rondine porta il cibo ai piccoli rondinini, le due oche non sono sul solito tronco, e poi folaghe, svassi, anatre, alberi caduti per i temporali.
Anzi prima ancora comincia sfogliando La Stampa e scoprendo che il pezzo su Tiny che ho scritto ieri in velocità, dopo le prove, non è uscito. Mi dicono che uscirà domani. Speriamo.
Nel pomeriggio ci sono le prove, le ragazze vestite di nero che toglieranno i visori e faranno assistenza. E io scappo a un certo punto per andare a fare il saggio di tango. Da un teatro all’altro, da professionisti a bimbe e ragazzi e uomini e donne impegnati con le danze folk. E anche questo potrebbe non essere importante ma invece lo è, perché ballo tango da pochi mesi, perché la musica parte prima, perché il palco è inclinato e sui tacchi mi sento sempre in pericolo e tutto è ascolto di quel che succede istante per istante.
E poi in teatro con le ragazze e i ragazzi del BTT, i tecnici, tutti. Tengo il vestito da tango, cambio solo le scarpe. Vorrei stare giù per vivere quel che vivono gli altri e ci sto il più possibile, anche nel piccolo allenamento vocale, anche nel “merda, merda, merda”.
Poi salgo con Carlo ad accogliere i primi 5 spettatori. Carlo mi chiama “giornalista”, da lì in poi mi chiamerà “ragazza” che fa strano vista l’età ma è molto più intimo e bello. Sono “la ragazza del diario”.
Dalla galleria sento la musica in platea, so più o meno cosa sta succedendo, intanto accendo un incenso giapponese per togliere l’odore di umido e per dare una sensazione di casa.
I primi 5 arrivano, esplorano, guardano il video, qualcuno fa domande, qualcuno apre il cassetto di Viola che contiene lettere, qualcuno gioca con la mia campana tibetana, apre il mio zaino che ho lasciato vicino alla mia postazione e trova le scarpe da tango.
Poi arrivano altri e altri ancora, piangono o se non lo fanno sono commossi, leggono, sfogliano, sostano, toccano, sembrano accarezzare le cose con la delicatezza con cui avrebbero voluto essere toccati da bambini. I maschi vanno diretti su Qrcode, le femmine leggono prima il diario del loro performer e poi gli altri. Questo in genere.
Ci sono la mamma e la sorella di Luca che piangono tantissimo. Quelli che arrivano da Flavio invece sembrano più divertiti.
In questa stanza c’è una densità quasi religiosa (faccio la prof: religione viene da re-legire, mettere insieme le cose), le persone si accostano agli oggetti con il rispetto del rito, anche le posture sui gradoni sono in armonia.
Il diario drammaturgico è lungo da leggere. Molti mi chiedono se sarà leggibile in futuro. Sul diario degli ospiti all’ingresso (o all’uscita) c’è chi scrive e chi lascia un saluto, chi passa e va.
2° giorno, domenica 18 giugno
Siamo usciti oggi sulla Stampa. Evviva. Evviva aver dichiarato il mio essere dentro e fuori ed essere stata accolta, come opportunità.
Arriviamo alle 14.30 e ci sono prove, le nuove ragazze vestite di nero che provano l’esperienza, Davide che sincronizza tutto, Luca con la musica, Ermanno con le luci.
Dopo i primi cinque che leggono, guardano il video di Matteo, cambiano postazione, chiacchiero con Arianna che leggendo il diario mi chiede che studi ho fatto. È in crisi con architettura perché le sembra che la parte artistica e creativa si atrofizzi. È successo anche a me all’Università. Ne parliamo, sento quasi una responsabilità.
Ecco una parola su cui vorrei stare:
R E S P O N S A B I L I T À
Quella del lavoro di Carlo, in cui sento la connessione e la coerenza con la politica, l’agricoltura, l’etica. Quella del BTT. Perché tutto è collegato: di cosa ci nutriamo sia in senso fisico che non, come consumiamo, cosa raccontiamo sul palco o sul giornale o in un visore. C’è la responsabilità dell’artista nei confronti di chi vive l’esperienza, di chi è piccolo, disabile, anche solo di guardarsi dentro e che qui non può scappare. C’è l’esserci e la qualità dello stare.
Fra le seconde persone ci sono due bimbe che hanno fatto le esperienze con Nadja e con Lisa. Le indirizzo verso le postazioni. Giada ha in mano la stoffa e mi chiede se quel jeans Lisa l’ha indossato, se i tessuti sul quaderno erano vestiti di lei da piccola, perché le forbici sono piccole, se tagliano o meno. La cosa sorprendente ma anche per nulla, visto che siamo vibrazioni e risuoniamo, è che la mamma vende tessuti. Giada sembra una Lisa piccola.
La piccola che ha seguito Nadja (mettere nome) e che ha in mano un maialino, trova la stessa foto che Nadja le ha fatto vedere e si emoziona. Gioca con gli altri maialini. Scrive sul diario che lei non ha paura del buio. Quando Nadja glielo ha chiesto ha risposto “No”.
I terzi sono più frettolosi.
I quarti invece non se ne vanno più. In tutto questo non sono più riuscita a risalire ad accogliere con Carlo. Leggono tutto, curiosano, chiedono, hanno piacere di sapere cosa è successo, come si è lavorato insieme. E così i quinti e i sesti. Si muovono come animaletti in un habitat non conosciuto ma anche conosciuto da sempre, con tatto e grazia.
Fra i suggerimenti e le impressioni raccolte: c’è chi vorrebbe provare tutte e cinque le esperienze, chi poter leggere il diario drammaturgico con calma per capire il processo, chi vorrebbe fare un workshop di danza e scrittura per non professionisti, chi fermarsi di più nella stanza dei diari per leggere tutto, chi vorrebbe più racconto, chi vorrebbe interagire di più con i performer in scena, chi vorrebbe più danza live.
Tutto dipende molto anche dal momento in cui si vive il tutto e dal tipo di vibrazione e risonanza che si crea.
A cena Davide mi chiede perché le persone si commuovono tanto. Rispondo che fra me e lui ci sono pochissimi atomi di differenza, poche molecole. Lo penso, risuoniamo perché la tua paura dell’abbandono, del distacco, la perdita di un amore o di un animale amato o di un genitore, un episodio di bullismo, un luogo del cuore, il profumo della torta della zia, un desiderio che non si realizza, qualcosa che non vogliamo ma abbiamo sono la condizione umana condivisa. Sono il nostro essere creature senzienti, fragili e ogni tanto potenti presenze sul pianeta, mistero di interconnessioni, interrelazioni, interdipendenze. E battiti di cuore. E battiti di ciglia. E grumi di pianto e gioia. E slanci verso il cielo e terra che ci assorbe.